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Alle origini della ciaccia e tortello fritto

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Ogni volta che immergo le mani nella farina per impastare la ciaccia mi sembra di tornare bambina, piccola, molto piccola; ricordo quando una volta a settimana si andava a far visita ai nonni a Verghereto.

In quelle occasioni mio padre toglieva il telo che copriva la fiammante Fiat 125. Si! Perché a quei tempi l’auto buona si teneva in garage coperta perché non s’impolverasse. Per un uso quotidiano la mia famiglia aveva l’infaticabile fiat 500 giardinetta ma quando dovevamo percorrere tutta la valle del Savio e, una volta arrivati a Bagno di Romagna, salire fino a Verghereto si usava sempre la “125”: più grande e sopratutto più comoda.

Giacché io ero la più piccola, l’ultima di quattro figli, inevitabilmente finivo per fare il viaggio sulle ginocchia di qualcuno. No! A quei tempi nessuno notava se su un’auto omologata per cinque passeggeri si viaggiava in sei: quella era un’auto da famiglia e ci viaggiava tutta la famiglia. A quei tempi non esisteva l’attuale E45, c’era soltanto la S.S. Umbro Casentinese, una strada tutte curve che seguiva il profilo delle montagne e attraversava tutti i paesi e le cittadine della valle del Savio. Fino a Borello non c’erano problemi, la strada correva diritta, in pianura ma, dopo avere oltrepassato l’abitato di Borello ed attraversato il fiume Savio, c’erano le curve di Gualdo, la prima serie di tornanti che mettevano alla prova il mio stomaco. Non ho mai capito se fosse meglio stare a stomaco vuoto o mangiare qualcosina, se bere o non bere, so solo che ad ogni curva, ad ogni tornante, sentivo gli organi interni salire, sembrava che ogni cosa volesse uscirmi dalla bocca.

Poi la strada si faceva più diritta e si arrivava a Mercato Saraceno. Di solito si faceva una breve sosta, una pipì e poi si ripartiva ed era la stessa storia: curve, tornanti, mal di stomaco, brevi rettilinei e Sarsina, curve, rettilinei tornanti e Quarto. Se, trattenendo i conati, riuscivo ad arrivare a Quarto senza obbligare mio padre ad una fermata urgente, potevo pensare di farcela: ora la strada dava un pò di tregua, per un tratto correva vicino al fiume e non aveva troppe curve, poi piano piano tornava a salire e a farsi tortuosa ma non come più a valle; all’improvviso iniziava la discesa che ci avrebbe portati a San Piero in Bagno.

Quando, davanti a noi, vedevamo l’abitato di San Piero iniziavamo a sentire aria di montagna e, sopratutto per mio padre che si è sempre definito un montanaro, quella era aria di casa. Di solito iniziava a cantare a squarciagola. Erano canzoni di un tempo andato, di partigiani; spesso raccontavano di gesti eroici e di libertà. Noi bambini che non le conoscevamo lo seguivamo facendo il coro.

Dal centro del paese di San Piero a Bagno di Romagna e oltre, la stada correva pianeggiante e diritta vicino al fiume; restava solo da affrontare l’ultimo tratto in salita, quindi ancora curve, tornanti e mal di stomaco. Quando ormai pensavo di non farcela più, all’improvviso, dopo una curva, appariva come per miracolo il cartello di Verghereto. Mi girava la testa , avevo lo stomaco in subbuglio ma ero felice. Arrivare a casa dei nonni era sempre una gran festa. Ricordo come fosse oggi le urla di felicità mie e dei miei fratelli quando mio padre, spegnendo l’auto nell’aia di casa, gridava: “siamo arrivati!”. Ricordo mia nonna che salutava e baciava i miei fratelli poi, per ultima si avvicinava a me , mi baciava, mi prendeva in braccio e mi faceva roteare in aria; io chiudevo gli occhi come in una giostra e mi passava subito ogni malessere per il viaggio. Non dimenticherò mai l’allegria di quei momenti, la contentezza ed il sorriso della nonna, il suo odore dolce di donna anziana. Dopo i saluti del primo incontro, mio padre e i miei fratelli si allontanavano nel campo col nonno Cesare. ” Lasciali sbrigar cose da maschi” diceva la nonna Checca ” noi andiamo in cucina che t’insegno a far la ciaccia ed i tortelli fritti“.

Ogni giovedì quando al Fabbrolo ripropongo il menù Altosavio con la ciaccia ed i tortelli fritti non sono mai sola: c’è la nonna Checca lì con me che, con la sua presenza, mi incoraggia a portare avanti le tradizioni della mia famiglia.

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